Sugli scalini della badia, vidi Fulmine che piangeva.
Il giorno dopo scoprii che si chiamava Franco. Lo diceva il giornale, ma io lo conoscevo da vent’anni, ed era sempre stato Fulmine.
Gli offrii un caffè, ma arrivati al bar ordinò due sambuche.
Parlammo un po’ dei vecchi tempi. Non stava bene.
«Sicuro che non ti va un caffè?»
«No, grazie. Magari un’altra sambuca…»
Il bar stava per chiudere. Mi parlò di sua figlia. Se l’era portata via la leucemia, due settimane prima.
Lo lasciai sui gradini della chiesa. Gli dissi: «Ci si vede!»
Ma entrambi sapevamo che avevo detto una bugia.